
Cose vive
Munir Hachemi
(2018)
La Nuova Frontiera
Che sia tutto collegato – le guerre, lo sfruttamento, le malattie, il cambiamento climatico – ne abbiamo spesso la sensazione. In quei momenti, in cui ci sembra, all’improvviso, di aver capito tutto, come se Morpheus ci avesse appena rivelato che la realtà che abbiamo sempre conosciuto non esiste ma che è solamente il frutto di una gigantesca manipolazione collettiva, ci sentiamo quasi compiaciuti, illudendoci che la sola autopercezione basterà a cambiare le cose. Non è così. Perché, la verità, è che sono almeno sessant’anni – dalla guerra nel Vietnam – che in occidente abbiamo iniziato ad accorgerci di come tutto sia collegato. Che il capitalismo non è una falla del sistema economico, ma che è il sistema stesso a funzionare così. Le macchine sono state progettate dal capitale in modo tale che esso possa alimentarsi, tramite loro, con la morte delle “cose vive”, umane, animali, vegetali. Ce ne siamo accorti da un pezzo – forse ce ne siamo già dimenticati? – , ma siamo stati così invigliacchiti dallo stesso sistema che ci opprime, da aver perso la capacità di esprimerci al riguardo.
Munir Hachemi, con questo suo racconto, fornisce un esempio tangibile della connessione di tre dei più grandi settori del capitalismo avanzato: allevamento, agricoltura, sanità. Lo fa in maniera spietata e profonda, senza tanti giri di parole, con uno stile di scrittura modernissimo, asciutto e tagliente. Si tratta, come lo stesso autore confessa all’inizio del romanzo, della rielaborazione di un’esperienza di vita vissuta. Munir aggiunge che ci sono voluti alcuni anni per trovare il coraggio di mettere nero su bianco quell’esperienza che, nel frattempo, si era sedimentata dentro di lui, senza che fosse mai riuscito a rappacificarvisi.
Il racconto è ambientato nel sud della Francia, ad Aire sur l’Adour, località dove Munir, insieme ad altri tre amici spagnoli, si dirige un’estate alla ricerca di un lavoro stagionale. I quattro sono da poco usciti dall’università e hanno voglia di fare “esperienze”. In quanto immigrati sanno in partenza di non dover pretendere troppo. Pensano di trovare un posto nella vendemmia, che però scoprono che proprio quell’estate tarderà, a causa delle piogge torrenziali che hanno rovinato i vigneti. Non gli resta altro da fare che accettare il primo impiego disponibile: quello negli allevamenti di polli. Entrando in queste fabbriche della morte, Munir e compagni si accorgono immediatamente che, insieme ai polli, rischiano di morire anche loro, seppure con più lunga agonia. Ma all’iniziale shock segue un periodo di assestamento e una successiva fase in cui i lavoratori puntano consapevolmente all’autodistruzione. I quattro amici vedono morire due loro colleghi, in circostanze mai del tutto rese note ma quasi certamente ascrivibili all’eccesso di velocità in auto, mentre si dirigevano in uno dei campi di lavoro per il turno di notte. L’agenzia interinale, infatti, propone un trattamento di favore per chi, tra i dipendenti, si renda disponibile a guidare l’auto. La fregatura sta nel fatto che la paga non è oraria, ma chilometrica: il che significa che più chilometri fai, più vieni pagato, ma che tu ci impieghi due o cinque ore per raggiungere la destinazione, questo non fa differenza. La tendenza dell’autista è, di conseguenza, quella di accelerare quanto più può, per non “perdere tempo” non pagato. Questa e molte altre dinamiche fanno sì che i quattro ragazzi entrino, di lì a poco, in una pericolosa spirale di autodistruzione. Munir è quello che, dei quattro, rimane più scettico, fatica ad abituarsi all’orrore quotidiano. Cerca un nuovo lavoro e gli viene offerto un posto nei campi di mais. Far scoppiare il fegato alle anatre somministrando loro cibo liquido attraverso pompe che sembrano quelle della benzina non è così diverso dal controllare che una pianta di mais non si fecondi con un’altra. Il secondo compito è meno ripugnante a vedersi, forse, ma nella sostanza ugualmente distruttivo. Di questo Munir si renderà conto solo alla fine del suo viaggio, grazie all’aiuto di G, suo fedele amico e compagno di avventure infernali.
Leggete questo libro se volete iniziare a comprendere perché, come scrive Hachemi, “tutto è coperto di sangue”. È verità, ancora prima che letteratura: non si tratta di sangue fresco, l’autore non ha alcun interesse nel compiacerci con brividi splatter. È sangue “sangue secco, secchissimo”, che difficilmente finisce nei film o nei libri, il sangue di chi lavora per la propria morte.
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